Wed, Dec 2, 2020

Intervista a Enrico Rovere “Capannoni e macchinari? Non solo, il valore di un’impresa è molto di più

Conoscere il valore della propria azienda è fondamentale per ogni imprenditore. È il tema di un’intervista a Enrico Rovere, Managing Director, a cura di Silvia Tartamella, pubblicata su L’Imprenditore in data 12 novembre 2020.

Più che un simbolo, quasi un alter ego dell’imprenditore. Per decenni il capannone ha rappresentato metaforicamente e plasticamente il lavoro, l’Italia produttiva, grazie anche a una letteratura industriale che ha lungamente celebrato gli anni del boom economico e le distese di stabilimenti senza soluzione di continuità di molte aree del Paese. Sicché era naturale che alla domanda “quanto vale la tua azienda” l’imprenditore sciorinasse in prima battuta l’elenco di opifici, macchinari e strumenti in dotazione. Oggi, anno 2020, il capannone non va di certo in pensione, ma occupa un diverso posto nella determinazione del valore complessivo di un’azienda.

Per capirne di più ci siamo fatti aiutare da Enrico Rovere, Managing Director di Duff & Phelps, società di consulenza specializzata in servizi alle imprese nell’ambito della valutazione, corporate finance, contenziosi e investigazioni, sicurezza informatica, ristrutturazioni e problemi regolatori.

“Il valore di un’impresa, intesa come insieme di beni e persone organizzato e gestito dall’imprenditore e i suoi collaboratori, dipende dalla capacità di generare flussi di cassa – spiega Rovere -. Se il mercato non premia il mio prodotto oppure se non riesco ad ottenere la marginalità sufficiente a remunerare gli investimenti effettuati, il valore dell’azienda potrebbe risultare inferiore alla mera somma algebrica delle sue parti”.

Questo principio, di matrice anglosassone, è stato introdotto nella dottrina economica italiana a partire dagli anni Sessanta e oggi è ampiamente condiviso e adottato. Tuttavia, il nostro Paese, come anche la vicina Germania, conserva per ragioni storiche un certo legame con la valutazione patrimoniale. Ne deriva che il metodo patrimoniale, o una variante dello stesso quale il cosiddetto misto patrimoniale/reddituale, è un criterio ancora oggi adoperato da alcuni professionisti in Italia per valutare le Pmi, nonostante la prassi e gli organismi internazionali, così come i Principi italiani di valutazione predisposti nel 2015 dall’Organismo italiano di valutazione, prediligano maggiormente i metodi finanziari.

Il fattore essenziale della valutazione è la predisposizione di un business plan aziendale solido, che rappresenti in modo quanto più realistico possibile la capacità di generazione di flussi di cassa prospettici, tenuto conto ovviamente delle informazioni disponibili al momento.

Per Rovere, quindi, i metodi patrimoniali, sebbene basati su dati storici, possono essere comunque utili a dare un quadro di insieme, fatto salvo il principio che tutti i metodi, se ben applicati, debbono portare a una convergenza sul valore attribuito all’azienda. “Se con un metodo assegniamo un valore di 100 e con un altro un valore di 10, sarebbe sbagliato dire che il valore dell’azienda è 55 – avverte -. Questo è ciò che non deve accadere e qui entra in gioco il mestiere del valutatore, che è un economista di azienda ed è capace di considerare i fattori tecnici che incidono sulla valutazione”.

Nel corso della sua vita professionale, Rovere ha operato come valutatore di aziende, lavorando sia nel settore della consulenza (Pirola Corporate Finance Spa e Pirola Pennuto Zei & Associati, Pricewaterhouse Coopers LLP a New York) che nelle aziende (è stato responsabile della pianificazione strategica in Fca a Torino, ndr).

Questo “doppio passaporto” gli ha consentito di maturare una conoscenza approfondita delle dinamiche interne all’impresa, oggi spendibile anche per un target di Pmi al quale il ramo italiano di Duff & Phelps si rivolge congiuntamente al target delle grandi imprese. “Il tema della valutazione riguarda tutti. Noi operiamo in Italia, dove vi sono circa 350 imprese quotate e poco meno di un migliaio di aziende con un fatturato superiore a 250 milioni di euro. La stragrande maggioranza è composta da imprese più piccole, ma dotate di una complessità, know how e tecnologie di tutto rispetto e dalle quali non si può prescindere”, chiarisce Rovere.

Se dovesse raccontare un’“ingenuità” commessa a volte dagli imprenditori nel valutare la propria azienda? “Dobbiamo partire da un fatto. In Italia abbiamo molti imprenditori di prima e seconda generazione. Come tali attribuiscono all’impresa un valore che va ben al di là di quello patrimoniale – spiega -. Hanno costruito gli impianti, hanno speso per i macchinari, hanno formato persone e in azienda spesso vi hanno trascorso i loro sabati e domeniche sacrificando anche la famiglia. È normale che, in occasione di una vendita, possa esserci distanza fra la cifra che ha in testa l’imprenditore e quella che l’acquirente è disposto a riconoscere”.

Rivolgersi a un valutatore consente ad esempio di partire da posizioni più vicine nel caso di una trattativa, di cogliere al volo la congruità di un’offerta e in ultima istanza di tutelare la continuità dell’impresa. Capita sovente, racconta ancora il valutatore, che l’imprenditore rifiuti un’offerta che non ritiene adeguata e che tempo dopo ci ripensi, ma nel frattempo il mercato sia cambiato. “D’altra parte il vero valore si esplicita nel momento di una transazione”, chiosa Rovere.

Le fasi del processo di valutazione

Stimare il valore di un’azienda è un’operazione complessa, articolata in più fasi. Un primo passo di familiarizzazione con l’imprenditore e il management serve a conoscere la struttura, i prodotti, il mercato e la strategia. Segue la raccolta dei dati economico/finanziari, sia storici che prospettici. E qui, per esempio, si incontra una prima difficoltà con le Pmi perché non tutte lavorano con una pianificazione costante e non tutte effettuano un’analisi degli scostamenti. Occorrerà poi affiancare un’analisi patrimoniale (macchinari, stabilimenti, eventuali adeguamenti da effettuare) e un’analisi del mercato.

“Ogni industria ha un proprio profilo di rischio, che varia in base al settore e al tipo di attività – spiega Rovere –.  Chi opera in mercati globali generalmente rischia meno di chi è attivo solo sul mercato domestico. Maggiori garanzie vi sono anche per chi può contare su un ampio portafoglio prodotti e per chi ha fatturati più consistenti”. Terminata la fase di raccolta, si passa alla costruzione del modello di valutazione, nel quale il consulente andrà a considerare anche il valore residuo dell’azienda oltre agli anni espliciti di piano, unitamente ad altri aspetti legati al paese in cui ha sede l’impresa (tasso di crescita del Pil, tasso d’inflazione, etc.). “Il tutto andrà verificato per capire se le assunzioni di lungo periodo che sono state fatte sono coerenti o meno”, aggiunge.

Quanto dura il processo? “All’incirca da due a quattro settimane – chiarisce.  – Molto dipende dalla disponibilità dei dati. Mentre la filiale di una multinazionale è abituata a fornire con periodicità documenti di reportistica alla società madre, è normale che in una Pmi i tempi siano più dilatati”.

No alla personalizzazione

Più in generale, l’attività di formalizzazione dei dati è, forse, il vero tallone di Achille delle Pmi italiane e questo si evince anche dal fatto che troppo spesso l’impresa e il suo know how vengono identificati nella persona dell’imprenditore. Qui Rovere ricorda il caso di un fondo di private equity che per concludere l’affare aveva esplicitamente chiesto all’imprenditore di “restare in sella”, come spesso accade. “L’impresa sei tu”, gli era stato spiegato. Da lì la decisione da parte del titolare di cambiare rotta e lavorare per diffondere all’interno dell’azienda il più possibile il bagaglio di conoscenze accumulato. “Occorre andare verso un know how aziendale diffuso. A volte basta scrivere un semplice manuale, un formulario, cosicché quando per esempio il capo reparto va via non si perda tutto quello che è stato acquisito”, suggerisce Rovere.

Ma lei che idea si è fatto delle Pmi italiane? “Restano l’ossatura del Paese e hanno grande flessibilità. La Germania senza di noi e le nostre Pmi farebbe grossa fatica. Però serve più collaborazione. Per affrontare realtà più grandi nel mondo bisogna rafforzare la propria capacità competitiva e negoziale e quindi occorre crescere e managerializzare l’azienda.

La crescita, così come l’ingresso di manager esperti si possono realizzare con un investitore istituzionale, quale un fondo di private equity, oppure con un investitore strategico, concorrente dell’azienda oppure operante nello stesso settore ma in altro segmento della filiera industriale o interessato a diversificare. Chi ha fatto questi passi, per quella che è la mia esperienza, ne ha tratto senz’altro benefici”.

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